OPERAMONDO
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OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE DANTE OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE OPERAMONDOlibri LATORRE 1. El cominciò “Figliuol, segui i miei passi
2. E come a messagger che porta ulivo (Casella)
3. Là ci traemmo; e ivi eran persone
4. La concubina di Titone antico
5. Mentre che li occhi per la fronda verde OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE 1. El cominciò “Figliuol, segui i miei passiOPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE El cominciò: "Figliuol, segui i miei passi: volgianci in dietro, ché di qua dichina questa pianura a' suoi termini bassi".
L'alba vinceva l'ora mattutina che fuggia innanzi, sì che di lontano conobbi il tremolar de la marina.
Noi andavam per lo solingo piano com'om che torna a la perduta strada, che 'nfino ad essa li pare ire in vano.
Quando noi fummo là 've la rugiada pugna col sole, per essere in parte dove, ad orezza, poco si dirada,
ambo le mani in su l'erbetta sparte soavemente 'l mio maestro pose: ond'io, che fui accorto di sua arte,
porsi ver' lui le guance lagrimose; ivi mi fece tutto discoverto quel color che l'inferno mi nascose.
Venimmo poi in sul lito diserto, che mai non vide navicar sue acque omo, che di tornar sia poscia esperto.
Quivi mi cinse sì com'altrui piacque: oh maraviglia! ché qual elli scelse l'umile pianta, cotal si rinacque
subitamente là onde l'avelse. OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE
PURGATORIO, I 111-136 OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE 2. E come a messagger che porta ulivo (Casella) OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE
E come a messagger che porta ulivo tragge la gente per udir novelle, e di calcar nessun si mostra schivo, così al viso mio s'affisar quelle anime fortunate tutte quante, quasi obliando d'ire a farsi belle. Io vidi una di lor trarresi avante per abbracciarmi con sì grande affetto, che mosse me a far lo somigliante. Ohi ombre vane, fuor che ne l'aspetto! tre volte dietro a lei le mani avvinsi, e tante mi tornai con esse al petto. Di maraviglia, credo, mi dipinsi; per che l'ombra sorrise e si ritrasse, e io, seguendo lei, oltre mi pinsi. Soavemente disse ch'io posasse; allor conobbi chi era, e pregai che, per parlarmi, un poco s'arrestasse. Rispuosemi: «Così com'io t'amai nel mortal corpo, così t'amo sciolta: però m'arresto; ma tu perché vai?». «Casella mio, per tornar altra volta là dov'io son, fo io questo viaggio», diss'io; «ma a te com'è tanta ora tolta?». Ed elli a me: «Nessun m'è fatto oltraggio, se quei che leva quando e cui li piace, più volte m'ha negato esto passaggio; ché di giusto voler lo suo si face: veramente da tre mesi elli ha tolto chi ha voluto intrar, con tutta pace. Ond'io, ch'era ora a la marina vòlto dove l'acqua di Tevero s'insala, benignamente fu' da lui ricolto. A quella foce ha elli or dritta l'ala, però che sempre quivi si ricoglie qual verso Acheronte non si cala». E io: «Se nuova legge non ti toglie memoria o uso a l'amoroso canto che mi solea quetar tutte mie doglie, di ciò ti piaccia consolare alquanto l'anima mia, che, con la sua persona venendo qui, è affannata tanto!».
Amor che ne la mente mi ragiona cominciò elli allor sì dolcemente, che la dolcezza ancor dentro mi suona. Lo mio maestro e io e quella gente ch'eran con lui parevan sì contenti, come a nessun toccasse altro la mente. Noi eravam tutti fissi e attenti a le sue note; ed ecco il veglio onesto gridando: «Che è ciò, spiriti lenti? qual negligenza, quale stare è questo? Correte al monte a spogliarvi lo scoglio ch'esser non lascia a voi Dio manifesto».
PURGATORIO, II 70-123 OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE 3. Là ci traemmo; e ivi eran persone OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE
Là ci traemmo; e ivi eran persone che si stavano a l'ombra dietro al sasso come l'uom per negghienza a star si pone. E un di lor, che mi sembiava lasso, sedeva e abbracciava le ginocchia, tenendo 'l viso giù tra esse basso. «O dolce segnor mio», diss' io, «adocchia colui che mostra sé più negligente che se pigrizia fosse sua serocchia». Allor si volse a noi e puose mente, movendo 'l viso pur su per la coscia, e disse: «Or va tu sù, che se' valente!». Conobbi allor chi era, e quella angoscia che m'avacciava un poco ancor la lena, non m'impedì l'andare a lui; e poscia ch'a lui fu' giunto, alzò la testa a pena, dicendo: «Hai ben veduto come 'l sole da l'omero sinistro il carro mena?». Li atti suoi pigri e le corte parole mosser le labbra mie un poco a riso; poi cominciai: «Belacqua, a me non dole di te omai; ma dimmi: perché assiso quiritto se'? attendi tu iscorta, o pur lo modo usato t'ha' ripriso?». Ed elli: «O frate, andar in sù che porta? ché non mi lascerebbe ire a' martìri l'angel di Dio che siede in su la porta. Prima convien che tanto il ciel m'aggiri di fuor da essa, quanto fece in vita, per ch'io 'ndugiai al fine i buon sospiri, se orazïone in prima non m'aita che surga sù di cuor che in grazia viva; l'altra che val, che 'n ciel non è udita?».
PURGATORIO, IV 103-135 OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE 4. La concubina di Titone antico OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE La concubina di Titone antico già s'imbiancava al balco d'orïente, fuor de le braccia del suo dolce amico; di gemme la sua fronte era lucente, poste in figura del freddo animale che con la coda percuote la gente; e la notte, de' passi con che sale, fatti avea due nel loco ov'eravamo, e 'l terzo già chinava in giuso l'ale; quand'io, che meco avea di quel d'Adamo, vinto dal sonno, in su l'erba inchinai là 've già tutti e cinque sedavamo.
PURGATORIO, IX 1-12 OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE 5. Mentre che li occhi per la fronda verde (Forese Donati) OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE OPERAMONDOlibri LATORRE EDITORE Mentre che li occhi per la fronda
verde ficcava ïo sì come far suole chi dietro a li uccellin sua vita
perde, lo più che padre mi dicea:
«Figliuole, vienne oramai, ché 'l tempo che n'è
imposto più utilmente compartir si vuole». Io volsi 'l viso, e 'l passo non men
tosto, appresso i savi, che parlavan sìe, che l'andar mi facean di nullo costo. Ed ecco piangere e cantar s'udìe `Labïa mëa, Domine' per modo tal, che diletto e doglia parturìe. «O dolce padre, che è quel ch'i'
odo?», comincia' io; ed elli: «Ombre che
vanno forse di lor dover solvendo il nodo». Sì come i peregrin pensosi fanno, giugnendo per cammin gente non nota, che si volgono ad essa e non restanno, così di retro a noi, più tosto mota, venendo e trapassando ci ammirava d'anime turba tacita e devota. Ne li occhi era ciascuna oscura e
cava, palida ne la faccia, e tanto scema che da l'ossa la pelle s'informava. Non credo che così a buccia strema Erisittone fosse fatto secco, per digiunar, quando più n'ebbe tema. Io dicea fra me stesso pensando:
`Ecco la gente che perdé Ierusalemme, quando Maria nel figlio diè di
becco!' Parean l'occhiaie anella sanza gemme: chi nel viso de li uomini legge `omo' ben avria quivi conosciuta l'emme. Chi crederebbe che l'odor d'un pomo sì governasse, generando brama, e quel d'un'acqua, non sappiendo como? Già era in ammirar che sì li affama, per la cagione ancor non manifesta di lor magrezza e di lor trista
squama, ed ecco del profondo de la testa volse a me li occhi un'ombra e guardò
fiso; poi gridò forte: «Qual grazia m'è
questa?». Mai non l'avrei riconosciuto al viso; ma ne la voce sua mi fu palese ciò che l'aspetto in sé avea
conquiso. Questa favilla tutta mi raccese mia conoscenza a la cangiata labbia, e ravvisai la faccia di Forese. «Deh, non contendere a l'asciutta
scabbia che mi scolora», pregava, «la pelle, né a difetto di carne ch'io abbia; ma dimmi il ver di te, dì chi son
quelle due anime che là ti fanno scorta; non rimaner che tu non mi favelle!». «La faccia tua, ch'io lagrimai già
morta, mi dà di pianger mo non minor
doglia», rispuos' io lui, «veggendola sì
torta. Però mi dì, per Dio, che sì vi
sfoglia; non mi far dir mentr' io mi
maraviglio, ché mal può dir chi è pien d'altra
voglia». Ed elli a me: «De l'etterno consiglio cade vertù ne l'acqua e ne la pianta rimasa dietro ond' io sì
m'assottiglio. Tutta esta gente che piangendo canta per seguitar la gola oltra misura, in fame e 'n sete qui si rifà santa. Di bere e di mangiar n'accende cura l'odor ch'esce del pomo e de lo
sprazzo che si distende su per sua verdura. E non pur una volta, questo spazzo girando, si rinfresca nostra pena: io dico pena, e dovria dir sollazzo, ché quella voglia a li alberi ci mena che menò Cristo lieto a dire `Elì', quando ne liberò con la sua vena». E io a lui: «Forese, da quel dì nel qual mutasti mondo a miglior
vita, cinqu' anni non son vòlti infino a
qui. Se prima fu la possa in te finita di peccar più, che sovvenisse l'ora del buon dolor ch'a Dio ne rimarita, come se' tu qua sù venuto ancora? Io ti credea trovar là giù di sotto, dove tempo per tempo si ristora». Ond' elli a me: «Sì tosto m'ha
condotto a ber lo dolce assenzo d'i martìri la Nella mia con suo pianger dirotto. Con suoi prieghi devoti e con sospiri tratto m'ha de la costa ove
s'aspetta, e liberato m'ha de li altri giri. Tanto è a Dio più cara e più diletta la vedovella mia, che molto amai, quanto in bene operare è più soletta; ché la Barbagia di Sardigna assai ne le femmine sue più è pudica che la Barbagia dov' io la lasciai. O dolce frate, che vuo' tu ch'io
dica? Tempo futuro m'è già nel cospetto, cui non sarà quest' ora molto antica, nel qual sarà in pergamo interdetto a le sfacciate donne fiorentine l'andar mostrando con le poppe il
petto. Quai barbare fuor mai, quai saracine, cui bisognasse, per farle ir coperte, o spiritali o altre discipline? Ma se le svergognate fosser certe di quel che 'l ciel veloce loro
ammanna, già per urlare avrian le bocche
aperte; ché, se l'antiveder qui non
m'inganna, prima fien triste che le guance
impeli colui che mo si consola con nanna. Deh, frate, or fa che più non mi ti
celi! vedi che non pur io, ma questa gente tutta rimira là dove 'l sol veli».
PURGATORIO, XXIII 1-114
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