OPERAMONDO

Dans vos viviers, dans vos étangs,
Carpes,
que vous vivez longtemps!
Est-ce que la mort vous oublie,
Poissons de la mélancolie.

 

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TEATRO



 

LA COMMEDIA DELL'ARTE

 

 Nel 1968 il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina era a Venezia. Rappresentavano Antigone alla Biennale. Era il momento della contestazione globale e il Living era la compagnia teatrale più in sintonia con lo spirito del tempo. Ma Beck e Malina andarono alla Fenice a vedere uno spettacolo di maschere e rimasero abbagliati da quel teatro. Dissero che quello era la fonte di ogni teatro, l'unico in grado di entrare in un rapporto vero con il pubblico. Il teatro dell'avanguardia s'inchinava alla Commedia dell'Arte.

 


 

 

Come si può pensare alla Commedia dell'Arte senza sentire un fremito? Una paura, un desiderio. Chiunque ha recitato lo sente. Sento la voce di quegli attori come la voce degli avi, benevoli e sorridenti, ma anche minacciosi, a volte, perché morti. Ebbene, è proprio così, sono tutti morti, ora. Eppure c'è stata vita più vita di quelle? Perché quelle erano vite "doppie" o anche triple e quadruple. Vite vissute più volte, dentro e fuori, osservando e facendosi osservare. Osservando e osservandosi. Punti di vista, prospettive. La Commedia dell'Arte non è solo un fenomeno storico, è un fenomeno mitico. In quanto mito ha fondato, e fonda, un presente, più presenti. Nomi, ora solo nomi. Nomi che, come in Proust, come in Nabokov, riempiono di neve la carta velina del cuore. Isabella Andreini, Francesco "Capitan Spavento" Andreini, Tiberio "Scaramuccia" Fiorilli, Flaminio Scala in arte Flavio, Tristano Martinelli "Arlecchino", Vittoria Piissimi, Dominique Biancolelli… sulle carrozze attraverso le Alpi, a dorso di mulo, nelle "stanze" con le grandi tinozze coperte da lenzuola, pronte per il bagno dopo lo spettacolo, intorno alla tavola, dopo la cena, a contare e dividere l'incasso, nei letti sempre diversi… Imitatori di re e di poveracci, poveracci essi stessi, quasi sempre, ma liberi, come Julian Beck, allegri e disperati come sono sempre gli attori. I comici dell'Arte italiani di quegli anni hanno inventato e dato dignità a una dimensione antropologica dell'essere umano. L'attore non è solo un mestiere, è un modo di essere in cui ogni essere umano può riconoscersi. È la consapevolezza, nei fatti e nelle azioni, che ciò che appare esiste e che tutto ciò che esiste, esiste perché appare. E che il mondo è il teatro della nostra coscienza. Perché noi ce lo rappresentiamo. E che ridere del mondo e di sé è la cosa più saggia. E che il riso è pieno di pietà per gli uomini. Perché tutti, attori compresi, dobbiamo morire.

 


 


La Commedia dell'Arte è "presente". Da cinquecento anni non ci ha più lasciato. Si sono sciolte quelle compagnie. Sono morti quegli attori. Ma lo spirito della Commedia non è scomparso. Entrato nel flusso sanguigno del mondo non ne è più uscito, anticorpo della seriosità e della intolleranza. Si è trasformato geneticamente. È diventato Molière e Dario Fo, Marivaux e Totò, Lope de Vega e Charlot, e Boleslav Polivka "l'Arlecchino di Praga". E tanti altri, che hanno dato nuove trame e nuove facce alla Commedia. Comici, sì, comici, clown che non volevano e non vogliono altro che far ridere e, facendo ridere, hanno contribuito e contribuiscono a formare il lato buono del carattere occidentale. Si potrebbe addirittura affermare che si è trattato, e si tratta, di un "teatro di liberazione", come dice il titolo di un bel libro sul "teatro di strada". Liberazione dal troppo prendersi sul serio, quel troppo prendersi sul serio che genera ortodossie e persecuzioni, anatemi e cacce alle streghe, guerre e morti. Se Hitler & company si fossero presi meno sul serio… Gratitudine, dovremmo nutrire gratitudine per loro tutti. Che ci hanno fatto e ci fanno ridere, pensando a quanti invece si danno da fare per farci piangere.


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