OPERAMONDOlibri
DANTE
I PERSONAGGI DELLA COMMEDIA
|
Cerco qualche volta di immaginare la felicità, mia e dei morti, e mi sembra che sia la vita. Giovanni Raboni Ogni terzo pensiero, 1994 I PERSONAGGI DELLA COMMEDIA È la morte che definisce il senso della vita.
Questo è vero sempre. Quando una vita si conclude, solo allora,
sigillata l’esperienza e consegnata all’immutabile, è tempo di
conteggi, tempo di guardare in un colpo l’insieme, di mettere su due
colonne i più e i meno… sempre che lo si voglia fare. Noi siamo
circondati, davanti e di dietro, dai morti ma, inebriati dalla
festa, non vogliamo saperlo. Al tempo di Dante lo sapevano. Dante lo
sapeva, vivendo, come tutti i suoi contemporanei, in città “di vivi
e di morti”[1]. Questo fa la differenza. Se poi la fede nell’aldilà
non si riduce al “vola in alto, palloncino”, ma è una virile
certezza, ecco che i morti diventano la schiera dei “maggiori[2]”.
Essi sono, assai diversamente da noi e assai più di noi, “vivi”[3],
perché sono nell’eterno compimento. Lì, fermi nel tempo che non
scorre, sono la realizzazione definitiva dell’opera di costruzione
di se stessi. Perché la vita è proprio questo, e lo capisci davvero
solo se sei morto. Quindi, dice Dante, è là che bisogna guardare per
capire[4]. Il senso alla vita lo dà la morte. La vita è “esilio”.
L’anima, creata per l’eterno, anela al ritorno. Le anime che
incontra Dante nel suo lucente delirio sono tornate. La maggior
parte di esse[5] all’oltrepassare si sono rese conto, ma è troppo
tardi, di non aver capito[6]. Quelle che hanno capito in tempo sono
o saranno beate, in pieno contatto con il tutto che è Dio, dal quale
saranno riassorbite come pensieri di cui non si è scordato. La Commedia è un grande teatro dei morti. Un
teatro spirituale. Nei due sensi: teatro di spiriti, di anime morte,
e teatro in cui ciò che conta è lo spirito, ciò che non può essere
visto solo con gli occhi. C’è un solo “ancora vivo”, lo spettatore
al quale il teatro dei morti è destinato. Lui è vivo come l’umanità
che rappresenta. Lui è l’umanità. Lui è nell’occhio rotante del
ciclone simbolico. A lui appaiono gli eterni, quelli di cui parla
Emanuele Severino[7]. Per lui s’accendono per un attimo le luci e,
passato lui, si spengono. O, meglio ancora, nel suo cono di luce (in
quel cono di luce che ognuno di noi è) appaiono le anime, “come per
vetri trasparenti e tersi” e fuggono poi per rifugiarsi nell’ombra
dell’assoluto imprendibile scomparendo alla vista “come per acqua
cupa cosa grave”. Per lui scendono dall’Empireo di luce e si fanno
visibili gli spiriti beati. Per lui la cacofonia bestiale
dell’Inferno, per lui il gregoriano risonante nelle “grotte” del
Purgatorio, per lui la polifonia celeste, che quasi sfugge,
“circulando”, all’ascolto. Lui è “il significato”, il centro unico
dell’atto del comprendere, l’ancora vivo che irrora del suo
significato, del significato che è, le anime che gli appaiono. La
verticalità gotica così tocca il suo vertice. La somma polifonia
vocale s’accende, tace a volte per non incenerire gli orecchi
mortali. La luce brilla sempre più pura. Anch’essa trattiene
talvolta i suoi eccessi per non incenerire gli occhi mortali. Più su
sempre più su, scalando l’ineffabile, sfidando l’impossibile, finché
il lavacro delle “palpebre mie” concede la visione finale, il teatro
del tutto in un punto. Infine scende la tenda. E lo spettacolo
diventa groppo incandescente di ricordi, che, per essere raccontato,
infiamma come mai prima le parole. Lo scopo di questo libro è ricostruire la mente
di Dante. Impossibile? Sì, è impossibile ricostruire nella sua
pienezza la mente di Dante. Ma sicuramente non c’è modo migliore per
avere un’idea di quella mente superiore che vedere ad uno ad uno i
personaggi che l’hanno abitata e che sono passati a brulicare nella
Commedia. Certo la mente di Dante era piena di idee, idee che spesso
il poeta ci espone tramite la voce di Beatrice, madonna Teologia, e
di qualcun altro: Virgilio, Papinio Stazio, Marco Lombardo, Carlo
Martello… ma molto più spesso, quasi sempre, come in tutti gli
artisti gotici, le idee s’incarnano in caratteri, in personaggi che
parlano e agiscono. Molti di essi Dante li incontra nel suo viaggio
oltremondano, e sono in prevalenza personaggi che hanno agito nella
loro vita generando effetti nella vita del poeta. Con alcuni di
quelli che incontra parla, con altri, pochi, interagisce. Ma molti
di più sono quelli che nomina soltanto, qualche volta in elenchi
apparentemente inerti, come quello degli Spiriti Magni del Limbo o
dei Sapienti del Cielo del Sole. E che inerti non sono, perché il
neofita della Filosofia Dante Alighieri era con loro in rapporto di
amorosa gratitudine[8]. Essi lo avevano elevato dalla condizione di
analfabeta della Scienza alla luce della Verità: Tre donne intorno
al cor mi son venute, tre incarnazioni della Dottrina. Escono dai
libri, quelle donne e quei personaggi. E noi che possiamo capire di
cosa voleva dire aprire un libro in quel tempo, in cui ogni libro
era stato scritto a mano, in cui la maggior parte della gente viveva
senza vederne alcuno? Tempi in cui gli antichi tomi, scrigni di
conoscenza sigillata, erano custoditi in luoghi sacri, dove solo
mani elette potevano sfogliarli? Possiamo immaginare noi la
Filosofia che s’avvicina al nostro letto di degenti condannati a
morte e ci accarezza e ci rincuora, così come è successo alla grande
anima viva di Severino Boezio, che il nostro poeta venerava?
L’attitudine visionaria di Severino, e di san Paolo e san
Bonanventura, e dei poetae Virgilio e Lucano e tutti gli altri, in
Dante lievita elevandoci alla magnificazione del reale. Gli
innumerevoli attori della sua vita, le “persone”, animano la
Commedia, e dobbiamo superare, noi moderni apprezzatori della
scienza storica, una spessa barriera d’incomprensione per capire che
quelle persone erano sì, in buona parte, persone che noi definiamo
“storiche”, cioè delle quali abbiamo qualche prova documentaria che
siano esistite, messe però a fianco a persone “non storiche”,
“mitologiche” “letterarie” “allegoriche” con la stessa dignità
ontologica delle altre. Quella linea rossa che noi tracciamo tra
questi due tipi per Dante non esisteva. Adamo, Enea, Ulisse erano
reali nella sua mente come Francesca da Rimini o Bonifacio VIII[9].
Nel poema che è la trascrizione sulla carta della sua mente, Dante
ha messo fianco a fianco le persone provenienti da tre mondi
diversi: quello della Storia, quelli della Bibbia, quelli
dell’Antichità. Di alcuni di essi ha avuto esperienza diretta, degli
altri sa perché di loro ha ascoltato racconti o letto libri. Lo
scopo della Commedia è pedagogico. Il poeta si propone come padagogo
dell’umanità, e lo fa proponendo il proprio ravvedimento come
esemplare. Di conseguenza i personaggi della sua opera valgono
tutti, uno per uno, come “exempla”. Sulla carta, dal punto di vista
della consistenza, “uno vale uno”, Cianghella vale Adriano V, Glauco
Guido da Montefeltro, Amiclate Federico II, la Lupa Bonifacio VIII… Insomma è il concetto stesso di “personaggio”
che dobbiamo maneggiare con larghezza di prospettiva, perché la
nostra visione delle cose non ci porti fuori strada. Se vogliamo
entrare nella mente di Dante, dobbiamo accettare il suo modo di
vedere, in particolare il suo modo di percepire gli esseri come
veri. Dante aveva ben chiaro che nella realtà Ugolino della
Gherardesca, conte di Donoratico, condannato a morte dai Pisani, era
stato una persona reale e aveva ben chiaro che Titone antico, per
esempio, o i Seniori che simboleggiano i libri del Vecchio
Testamento, sono “finzioni”. Ma sulla pagina svolgono la stessa
funzione: dimostrare una verità. Non è vero che i personaggi
allegorici o mitici del poema siano meno poetici dei personaggi
reali. Siamo noi che sbagliamo a prender più sul serio i personaggi
storici, ognuno legato alla concretezza di una vita, di un io[10]. È
proprio il moderno culto dell’io che ci porta fuori strada. Se
vogliamo capire Dante in tutta la sua bellezza, dobbiamo entrare
nella logica del suo poema, come si entra nella logica di un cartone
animato o di un film di fantascienza, dove i personaggi, di svariate
provenienze, godono della stessa tangibilità. Per Dante era
“poetico” percepire l’eterno brusio della verità sotto il rumoroso
scorrere delle vite. Intanto si leggono ancora commenti che elogiano
i “personaggi storici” e affermano che la grande poesia dantesca
nasce da quel concreto[11]. È un errore di prospettiva dovuta al
nostro modo di guardare, di noi devoti integralisti della prosopea
dell’io, irriducibile alla bellezza gotica, che amava “ciò che ha
senso”, meglio “ciò che contiene spirito”, altro dalla materia che
svanisce. Ecco allora che le parti snobbate del poema sono tra le
più intense se osservate con quel poco di gotico che è ancora in
noi: la statua del Veglio che gocciola lacrime[12], la bella femmina
la cui vagina puzza[13]… e anche l’albero della vita che sboccia in
fiori purpurei[14] (e quei fiori hanno il colore del sangue di
Cristo, perché “sono” il sangue di Cristo che redime), la croce che
lumeggia come la Via Lattea[15], l’Aquila Imperiale fatta a mosaico
di luci da migliaia di spiriti cantanti[16], la scala luminosa di
cui non si vede la cima[17], gli “umbriferi prefazi”, i fiori di
luce come pietre preziose incastonate[18]… e poi la doppia iride[19]
della Trinità e il Tutto che si squaderna[20] davanti agli occhi
“trasumanati”[21]… ma non stavamo parlando di personaggi!? Certo, il
fatto è però che la Commedia non è un romanzo dell’Ottocento, il cui
sfondo è la storia, e non deve essere letta come tale, dato che lo
sfondo di essa è l’eterno. Niente di meglio, per comprendere che cosa è un
personaggio per Dante, che leggere il XIII dell’Inferno. Dante,
guidato dal poeta antico Virgilio, suo personale meneur du jeu,
entra in un bosco spinoso, sente dei lamenti, ma non vede chi si
lamenta. Non capisce ed esita. Metafora dell’uomo che si aggira in
un bosco di simboli da decifrare. Come il lecteur di Baudelaire che
vaga nella foresta “où de vivants piliers laissent parfois sortir de
confuses paroles[22]”, o il sacerdote di Borges che, prigioniero e
con le membra spezzate “nel carcere profondo, e di pietra”,
decodifica in interpretazione del mondo le macchie del giaguaro che
intravede attraverso le sbarre. Virgilio gli dice che deve spezzare
un ramo per capire da dove vengono le voci. Dante lo fa e vede con
terrore uscire dalla scheggia voce e sangue. Tanto che lascia cadere
il rametto spezzato. Il fiato soffiato dal ramo che sfrigola diventa
parole. Il cespuglio parla. È l’anima di Pier della Vigna, il
protonotaro di Federico II morto suicida, che grida: “Perché mi
schiante?”. Ogni poeta sa che le sue parole “sono sangue” (“after a
day spent prone, hemorrhaging poems” ha scritto Derek Walcott, il
poeta di Saint Lucia, Nobel nel ‘93). Dante, sommo tra i poeti del
mondo, l’ha detto per tutti. Solo una mente pervasa di concreto
simbolismo poteva immaginare con tanta vividezza scene come quella
di Pier della Vigna. Dalla pianta esce la voce. La voce è aria che
esce soffiando dal corpo. L’oggetto, aperto, “parla”. Dentro di esso
c’è un’anima. La potenza visionaria di Dante ha creato la situazione
“perfettamente orribile”, una di quelle situazioni che sono solo dei
sogni. Almeno per noi moderni. Quest’orribilità onirica ha origine
nella mentalità capace di vedere in ogni cosa un’altra cosa, un
senso nascosto, una “incarnazione”. Una pianta spinosa contiene
un’anima furiosa. Se io sono capace di vederla, quell’anima, se ho
il coraggio di spezzare la materialità dell’oggetto e di farne
uscire “la voce”. Dante, il Dante pellegrino protagonista del
racconto, resosi conto di avere spezzato non un ramo ma un dito, lo
lascia cadere in terra e resta paralizzato dallo sgomento.
L’episodio di Pier della Vigna sembra quasi la didascalia di un modo
di percepire il mondo. Tutto ciò che appare nasconde qualcos’altro,
un segno, un’anima. Gli occhi si limitano alla superficie delle
cose. È compito dell’intelletto scoprire la verità contenuta in
esse. Sotto il mondo delle apparenze vibra un mondo segreto, quello
dei significati, anch’essi corpo, il vero corpo del mondo. Tutto il
mondo, apparentemente immobile, vibra di significato. Anche gli
esseri umani sono “significato”. E il significato dei significati è
Dio. Il mondo vibra di desiderio, perché a Dio vuole tornare. E a
Dio tornerà quando sarà ora. Ciechi gli uomini che non lo capiscono.
Dante ha compiuto il lungo viaggio della conoscenza e ora sa. Ora
che ha visto il mondo, che è dopo questo mondo, e che sarà per
sempre, può dire agli altri cristiani qual è la verità, dove
cercarla, come vivere in essa. Può dire agli irosi fiorentini che il
loro orgoglio è frutto di cecità, a tutti i cristiani che la loro
riottosità di fronte al potere dell’impero è frutto di cecità, a
tutti gli uomini viventi che la loro lussuria-superbia-avidità è
frutto di cecità. Nessuno cerca, nessuno vede, nessuno si rende
conto che “l’aiuola che ci fa tanto feroci” (Par. XXII 151) è una
ridicola porzione di spazio e una ancor più ridicola porzione di
tempo, destinata al nulla eterno. La “realtà” è quella che non
muore, quella che solo la mente illuminata può vedere. Insomma tutte
le cose che esistono, compresi i personaggi e le loro storie,
prefigurano il loro compimento nell’aldilà. Osservare tutto quanto
dalla prospettiva della morte, guardando al relativo dall’assoluto,
al contingente dal definitivo, questo ci invita a fare il poeta.
Nella Commedia Dante incontra o nomina,
direttamente o indirettamente, 771 personaggi. Anche volendo
escludere le doppie e triple identificazioni, sono comunque assai
più di 700. Nell’elenco qui sotto sono in rosso i personaggi storici
contemporanei di Dante (la maggioranza), quelli che Benvenuto da
Imola, il grande commentatore trecentesco, chiama “animae modernae”,
o appartenenti al Medioevo o alla storia della Chiesa; in blu i
personaggi storici dell’antichità; in verde i personaggi biblici; in
nero i personaggi della mitologia, gli allegorici e della
letteratura antica e medievale.
|
Copyright
LATORRE EDITORE
VIALE DELLA RIMEMBRANZA
NOVI LIGURE AL ITALY
+39 339 22 50 407