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IL DIAVOLO DENTRO
 
 

 

Il fascino immenso che la Commedia emana deriva dalle molteplici suggestioni che il lettore può ricavarne. Ne è prova la mole stupefacente di interpretazioni che ne sono state date nei secoli. L’opera è lì, ferma nel tempo. Ogni epoca ne privilegia un aspetto o l’altro, ogni epoca con le sue ragioni. È la caratteristica dei grandi capolavori. Virginia Woolf scrisse di Amleto: “L’ho letto a vent’anni e mi parlava di me; poi a quaranta e parlava di nuovo di me; lo sto leggendo a sessant’anni e sembra che Shakespeare abbia scritto quelle parole per me”. Oggi noi, lettori di Dante del terzo millennio, redattori di post autocelebrativi e del tutto intenti al privato nostro e altrui, tendiamo a privilegiare la dimensione umana della Commedia: la vicenda personale di Dante. Il viaggio raccontato da Dante Alighieri nella sua Commedia inizia in una selva. Sono state spese molte parole per dare significato a questa selva. Non parole inutili. La Commedia merita ogni attenzione. Ma è certa una cosa: Dante ci dice che, a metà della sua vita, della sua vita non sapeva che farsene. Capita a tutti, prima o dopo. A trentacinque anni sembra un po’ tardi, considerando anche che allora si viveva meno a lungo. Ma i primi trentacinque anni di Dante sono stati molto pieni. Avvenimenti personali e politici, avventure amorose, spirituali e carnali, disavventure di ogni tipo, esperienza di uomini. Dante si trova ora in esilio, non può ragionevolmente pensare di tornare a Firenze, dove è rimasta, in povertà, la sua famiglia. Non possiede più nulla. Ogni bene gli è stato confiscato. Ha servito il suo paese da amministratore onesto. Ha addirittura condannato all’esilio Guido Cavalcanti, suo “primo amico”, ma nobile litigioso, disubbidiente e riottoso. Per esigenze di ordine pubblico, Dante, in qualità di priore, lo ha mandato in esilio, con altri quattordici irrequieti Bianchi e Neri. A Sarzana, allora paludosa e malarica, da dove tornerà dopo un paio di mesi ammalato e vicino alla morte.

La selva quindi, il non sapere che fare della propria vita. Nel senso concretissimo di non sapere come mantenersi in vita. E in tutti gli altri sensi. Aver buttato gli anni migliori, ora che ogni attività, ogni desiderio, ogni studio e ogni aspettativa sono ridotti a un pugno di mosche. Dante si trova senza nulla, con la sensazione di non aver combinato niente di decisivo, di duraturo. La sua cultura, anche lei, la poesia, non sembrano contare molto ormai. Possiamo dirlo: come tanti giovani prima e dopo di lui, Dante ha il diavolo in corpo. Possiamo chiamarlo in tanti modi quel diavolo che a un certo punto prende possesso dell’anima giovane. Possiamo chiamarlo depressione, crisi giovanile, droga, alcool, sesso senza senso, assenza di significato, fastidio della vita, fastidio degli adulti, degli altri, delusione, cuore infranto, sogni infranti, mancanza di prospettive, voglia di buttare via tutto, senso totale di inutilità, voglia di morire.

Per qualche attimo, nel primo canto della Commedia, Dante si illude di poter risolvere. Vede la luce e la insegue. È in salita la strada, ma lui è giovane, ed è primavera. Ecco però che il diavolo che gli sta dentro si fa vivo: tre animali feroci, tre visioni, venute fuori dal tetro nulla che sta nell’anima, gli impediscono l’andare. Lo ricacciano nella foresta spaventosa. Sembra non esserci ormai altra via che la morte. Le parole che usa Dante sono proprio queste: paura, morte. Non paura di morire. O meglio non solo paura di morire. Anche desiderio di morire per porre termine alla paura insopportabile.

Dante ha il diavolo in corpo. E il diavolo sembra essere sul punto di vincere. Non lo lascia avanzare, gli impedisce ogni salita, la luce si allontana. Non c’è possibilità di scorciatoie. Deve affrontarlo quel diavolo maledetto che gli sta succhiando la vita, quel “mangiamorte” che sta impadronendosi totalmente di lui. Deve andare giù e guardarlo in faccia. “A te convien tenere altro vïaggio” gli dice il fantasma di Virgilio, apparso all’improvviso nello stesso modo nel quale sono apparse le tre bestie feroci. Generato dunque dall’anima malata di Dante. E quel “convien” è un ordine non un invito. “Tu devi scendere nell’abisso. Solo così potrai riprendere possesso di te stesso e cominciare faticosamente a risalire”. Il diavolo in corpo è il punto di partenza del viaggio dentro se stesso. E verso se stesso. Alla fine ci sarà la luce. Non ci sono garanzie di successo. Tutto dipende dalla forza, dal coraggio, dalla verità. Ma non c’è altra strada. Scorciatoie non ne esistono. Bisogna aprire gli occhi e scendere. Così come farà, qualche secolo dopo un altro giovane in lotta con il suo diavolo, Franz Kafka, che scriverà a un certo punto della sua guerra: “Solo nel profondo dell’inferno è possibile sentire il canto degli angeli”.

Dante vedrà la luce. Ora non sa se potrà farcela. Ma alla fine la vedrà. E allora tutto gli sarà chiaro. Vedrà, in quella luce, una figura umana, un viso. Un viso di uomo, l’incarnazione che ha messo in contatto umano e divino, facendoli diventare una cosa sola. Ma per vederlo quel viso occorre vedere tutto il resto, fino in fondo. Così Dante ci racconta l’avventura di ogni uomo che non voglia rassegnarsi a vivere sottomesso al suo diavolo.

 

 

 

 





 

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