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SANDRO BUORO
POETA
Nato a Grosseto nel 1947, si è trasferito coi
genitori in Alessandria nel '59. Maestro, poi docente di Materie
Letterarie nelle medie, di italiano e storia all'istituto Vinci di
Alessandria, infine dirigente scolastico. Sempre amato dai propri
allievi. Ha scritto di pedagogia, storia, cinema, collaborato con i
quotidiani La Stampa e Stampa Sera, organizzato conferenze e cicli
filmici con il Comune di Alessandria e nelle scuole in cui ha
operato come dirigente. I suoi lavori poetici
sono ormai numerosi e sempre ben accolti dalla critica.
La poesia è un’arte triste? Sembra di sì, a leggere la quantità dei poeti contemporanei. Sembra addirittura che la poesia possa essere definita come l’arte dello sfogo del dolore, della confessione delle colpe, del rammarico per il tempo che passa… Ma non è sempre così. Per fortuna! La poesia di Sandro Buoro è anche tutto questo, ma la sua sostanza è un’altra. Ed è una sostanza vitalistica, sensuale. C’è la memoria del poeta, che fonde nei versi i ricordi: la Maremma, il padre contadino, la madre sempre indaffarata, la scuola, la bicicletta, i viaggi… Ma c’è anche il presente: il giardino con tutte le sue varietà, il cibo, le carezze, le notti e i giorni, il cielo… Buoro osserva il tutto con occhi voraci. Vuole tutto. Afferra famelico gli eterni che si affacciano al suo cono di luce. E li divora, facendoli diventare carne di se stesso. La poesia è il suo modo di cibarsi del mondo. Versi in prevalenza lunghi, assorbenti, pieni di cose come le calze della Befana di una volta. Semplici in apparenza ma intrisi di cultura umanistica, di richiami letterari. Suggestioni colte trasfuse. Versi che a volte alternano slanci “sublimi” a notazioni delicatamente “comiche”. “E allora vieni, prendi coraggio/e una sera inoltrata di quarantena vieni qui/dove aspetta una magica soffitta ripulita/senza polveri sottili ragnatele e tarli molesti/ma libri di magia, mortai per erbe lontane/alambicchi di storie non scritte, misteriosi/profumi di viaggi mai consumati/e la vista del mondo che è finestra sul giardino”.
Come diceva Pasolini, “La
più grande attrazione di ognuno di noi / è verso
il Passato, perché è l’unica cosa / che noi
conosciamo ed amiamo veramente.” C’è tanto
passato in questo diario, passato che si coagula
attorno a due figure, le figure centrali della
vita di Sandro Buoro, prima e dopo: “PADRE MIO, MADRE MIA irrimediabilmente perduti cerco le impronte della vita tra i rovi che ricoprono l'orto che fu nostro e chiedo ai mattoni della cascina che non è più se ricordano la piccola cucina che riuniva di sera prima che notte separasse ognuno con fatiche e speranze proprie ma i cuori battevano all'unisono al canto dei riscatti sperati e dell'usignolo sulla gaggia in fiore.” (7 agosto 2021) Nostalgia del passato (dolore
del ritorno del passato) che altrove s’allarga ai toni dell’epica contadina: “DOVE SONO FINITI QUEGLI UOMINI coi vestiti stracciati e le
mani ridotte ad attrezzi da lavoro, QUELLE DONNE COL GREMBIULE LEGATO IN VITA
che cucinavano per la famiglia, preparavano conserve e marmellate, chiamavano
col verso a sera le galline che arrivavano correndo buffe, DOVE SONO i conigli
che mangiavano il filo d'erba in mano, i pulcini che giocavano coi bimbi
sull'aia, i tacchini pettoruti e superbi, le faraone che dormivano la notte
sugli alberi...”. Ma c’è anche, a fianco, il presente, vissuto con carattere
costantemente polemico/ironico, perché “fuori infuria la storia e i venti sono
contrari”. Si legga a proposito il 24 dicembre 2018: “LA BAVA DI VENTO che si è
alzata da qualche angolo di orizzonte…”. Perché con questo presente, per citare ancora Pasolini,
come si può non essere polemici? È quello stesso passato che di per sé è critica
nei confronti del presente. Ne risultano, qui dentro, due musiche diverse. Il “largo”
della contemplazione e del ricordo e il “mosso agitato” della polemica e della
critica si alternano per formare l’ossatura tonale della raccolta. Ecco un
esempio di come l’andamento lento dell’anapesto può guidare lo sguardo: “La
stagione che il mondo foglia e fiora, la vertù che 'ntorno i fiori apre et
rinove non è semplicemente croco che spinge la polvere, bocciolo carnoso di
narciso che gonfia dal suo tubero ricco, tulipano che chiude la corolla a sera
dopo averla impregnata di sole e aria oppure giacinto che spunta lento e mostra
il fiore a grappolo un po' alla volta fino a ubriacare del suo odore...”.
Altrove la lingua corre: “di questa città in mano a cinesi, neri, magrebini,
rumeni, slavi, centri commerciali e supermercati... e il peggio non sono loro in
questo luogo ‘fortunato’ posto al centro del triangolo industriale d'Italia,
l'ombelico della ‘settima potenza industriale’ del mondo... balle balle balle e
parole parole parole berciate da cattivi amministratori, da imbonitori di popolo
bue, da novelli Nerone con la cetra in mano a cantare la rovina della città e la
scomparsa della Provincia da qualunque classifica civile.” E così, rapportandosi
una all’altra e scontrandosi anche e amoreggiando, le due essenze verbali alla
fine si fondono in una voce originale, toccando la vetta: “Bastava un fruscio di canne per sognare In qualche luogo del nostro passato OPERAMONDOlibri |
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