PARLARE IN PUBBLICO: ALTRO
Quando si parla in pubblico si è nello sguardo altrui. La voce resta la
cosa più importante, naturalmente, come si è detto, ma non si deve
sottovalutare l’aspetto visivo del parlare in pubblico. Quello che
vedono gli occhi dei astanti si integra con quello che sentono. Il
messaggio complessivo percepito è la somma delle due cose. Ora come
bisogna comportarsi parlando in pubblico, quale atteggiamento tenere?
Non esiste una risposta che vada bene per ogni occasione. O meglio,
esisterebbe, se non volesse dire tutto e nulla. Infatti la regola è
sempre la stessa: essere naturali. È anche quello che si sentono dire in
continuazione i giovani che intendono imparare a recitare. Ma che cosa
vuol dire essere naturali? C’è chi è dotato di una spontaneità innata e
sa tenere l’attenzione del pubblico senza fatica e senza dover imparare
nulla, ma per la maggior parte delle persone non è così. Non si sa dove
tenere le mani, dove guardare, come tenere la testa. Allora possono
essere utili alcuni consigli molto semplici. Le mani, se non si ha una
espressività naturale, è meglio tenerle ferme, con le braccia lungo il
corpo, come se non ci fossero. Questo come postura di base. Bisogna
naturalmente evitare di metterle in tasca, o dietro le spalle o
incrociate sul petto, tutte cose che a volte il nervosismo fa fare.
Bisogna inoltre assolutamente evitare di grattarsi il naso o le
orecchie, di stropicciarsi gli occhi, o cose simili. Parlare in pubblico
è comunque una situazione di rappresentazione, come Eugenio Barba
definisce ogni occasione teatrale. E la situazione di rappresentazione
ha le sue regole fisiologiche, alle quali non si scappa. Tutto ciò che
il pubblico vede diventa segno, per il semplice fatto di essere visto da
un pubblico. Se gratto o accarezzo il mio naso con la punta delle dita,
denuncio una tendenza alla menzogna. Se mi gratto le orecchie, do la
sensazione di essere poco affidabile, fisicamente e moralmente. Le mani
in tasca dicono supponenza, un rischio che incombe sui timidi che non
vogliono essere riconosciuti. Non bisogna neanche muoversi qua e là. Non
possiamo scappare: chi ci ascolta vuole vedere bene, oltre che sentire
chiaro. Per riuscire a controllare il proprio corpo occorre esercitarsi,
non basta dire “ho capito”. Noi siamo un insieme psicofisico e il
surplus di energia fisica che si crea in una situazione che viviamo come
più o meno inquietante, cerca di scaricarsi da qualche parte. Provare
quindi a parlare davanti allo specchio. Non è proprio la stessa cosa, ma
serve. Se possibile provare davanti a un piccolo pubblico amico.
Al momento di parlare, se si dispone di un leggio, si possono tenere le
mani appoggiate. Senza però afferrarlo in modo drammatico, dando la
sensazione che si teme che voli via. Non bisogna neanche dare la
sensazione che, tolto il leggio, crolleremmo al suolo. Il rapporto con
l’oggetto deve essere di pieno e sereno possesso. Tutti siamo pronti a
interpretare ciò che vediamo. Il nostro immaginario collettivo è ricco.
Ci vuole poco a far ridere di noi.
Tenere lo sguardo sul pubblico, sempre, ma non indugiare troppo a lungo
su un solo ascoltatore. Lui penserebbe ce l’ha con me, gli altri si
sentirebbero trascurati. Non guardare in alto, sopra la testa degli
ascoltatori, come se da un momento all’altro dovesse apparire la
Madonna. E, ovviamente, non tenere gli occhi bassi. Siamo noi che
dobbiamo dare il ritmo al tempo che arriva. La qualità di questo tempo
non dipende solo dai contenuti del nostro parlare, ma dal valore ritmico
che siamo capaci di imporre al nostro corpo e alla nostra voce, alla
energia che diamo a quei minuti che scorrono. Ogni astante deve sentirsi
coinvolto in prima persona, deve sentire che il parlante si interessa di
lui, ma deve anche sentire di essere parte di un tutto e che le parole
che ascolta hanno un valore generale.
Se si deve leggere, attenzione a
non correre con la voce. Alzare spesso lo sguardo come per dire
stiamo leggendo insieme. Non trasformarsi in un computer.
Un ultimo consiglio, prima di passare allo studio vero e proprio della
dizione, è quello di non lasciare uscire la voce incontrollata. Quel
ahmmmm continuo, tra una parola e l’altra, ogni volta che si pensa a
cosa si deve dire, dà una sensazione sgradevole di incertezza, è rumore
di fondo che inquina la comunicazione. È una verità molto semplice,
eppure spesso capita di sentire queste canne aperte, che non si
zittiscono un momento, come un ribollire di trippe: perché come ahmmmm
come volevo ahmmmm come volevo dire ahmmmm ecco ahmmmm volevo dire che
l’argomento ahmmmm che stiamo per ahmmmm affrontare ahmmmm…
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